Una vita piena, avventurosa, entusiasmante
MONICA LANFREDINI
NOTE E NOTIZIE - Anno XVI – 30 novembre 2019.
Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org
della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia”
(BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi
rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente
lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di
pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei
soci componenti lo staff dei
recensori della Commissione Scientifica
della Società.
[Tipologia del testo: DISCUSSIONE]
Una vita piena, avventurosa, entusiasmante,
sorprendente, ricca di luce e di colori è costantemente associata a modelli
romanzati, entrati nell’immaginario collettivo contemporaneo soprattutto
attraverso le creazioni cinematografiche e gli strumenti di diffusione digitale
delle immagini, secondo lo stereotipo di un protagonista – col quale identificarsi
– che domina lo stress fatalmente indotto dall’incalzare degli eventi, e
lo percepisce come uno stimolo positivo, ricavandone gratificazione. Nel Novecento
sono stati creati innumerevoli personaggi su questa falsariga, secondo una
gamma di profili che va da quelli di persone ordinarie, ma al centro di vicende
straordinarie, a quelli dei supereroi.
Due personaggi hanno avuto sicuramente un ruolo di
prototipi, prima letterari e poi cinematografici: Philo Vance, un giovane
aristocratico viveur newyorkese, colto e raffinato amante della musica
classica, poliglotta, maestro di scacchi, golfista, schermitore e buongustaio
prestato al lavoro investigativo[1]; James Bond,
agente segreto 007 del controspionaggio inglese anche lui colto e raffinato ma
più dinamico e spericolato di Vance, ha per sfondo delle sue avventure la
spettacolare bellezza esotica di paesaggi da sogno, che variano col suo rapido
spostarsi da un continente all’altro, e fanno da cornice all’impiego di
strumenti, veicoli e armi sofisticate, come ai suoi innumerevoli flirt
con ragazze sempre estremamente affascinanti[2].
In entrambe queste figure-prototipo, che idealizzano
non solo il profilo di un interprete ma anche uno stile di vita, è evidente la
sottolineatura della capacità di assaporare e gustare ogni esperienza, in uno
stato psichico ottimale per esprimere ed esercitare ogni facoltà e risorsa
della percezione, in un sapiente uso dei piaceri.
Al Seminario sull’Arte del Vivere abbiamo appreso, dal
nostro presidente, che l’insensibilità totale allo stress è dovuta a
difetti strutturali cerebrali, tipicamente rilevati nei pazienti psicopatici, i
quali presentano caratteristici limiti intellettivi, che mal si conciliano con
l’intelligenza acuta ed efficiente di eroi, supereroi e protagonisti di avventure
on the road. Pertanto, non resta che supporre che costoro, per lunga ed
esercitata abitudine al rischio, abbiano una soglia di reazione d’ansia e paura
talmente alta da consentire loro di dominare con distacco e superiorità i più
gravi pericoli, senza nemmeno mostrare il corruccio che noi abbiamo per le noie
della vita quotidiana. Una simile ipotesi non regge all’esame di realtà, ma si
sa: è un gioco. La fiction è sempre un gioco; allora non può essere un
modello, men che meno un modello di vita. Al massimo può essere uno spunto per
pensare altro. Ad esempio: è possibile avere una vita intensa, entusiasmante,
costantemente piacevole e stimolante senza correre rischi?
Non mi sembra facile rispondere a questa domanda, che
mi riporta all’origine dell’idea stessa di una vita meravigliosa e al problema
di come ottenerla e realizzarla.
Effetti della suggestione passiva. Ci
nutriamo di immagini e il nostro immaginario mentale, fin dall’infanzia, è
popolato da migliaia di riproduzioni di paesaggi, città, persone, animali e oggetti
di ogni genere, così che la nostra immaginazione è un processo meno attivo che
in passato, abituati come siamo ad avere repertori da gestire e combinare, più
che cercare di dare forma e rappresentazione mentale a idee in costruzione. Immersi
nelle riproduzioni, sempre più spesso digitali[3], che sono
in continuità con il reale direttamente percepito, abbiamo sviluppato una sorta
di resistenza, se non di vera e propria refrattarietà, al valore di senso
veicolato dall’immagine pubblicitaria, ma, allo stesso tempo, è cresciuta la
nostra sensibilità e influenzabilità da parte dei prodotti fotografici e video,
probabilmente perché la netta separazione che vi era in passato tra realtà e
sua riproduzione tecnologica oggi appare alquanto ridotta, per ragioni intuitive.
Non sorprende, dunque, che mi sia capitato spesso,
alla richiesta su cosa farebbe il mio interlocutore per avere una vita piena,
avventurosa, entusiasmante, sorprendente, ricca di luce e di colori, di
ricevere in risposta che andrebbe in uno dei tanti paradisi tropicali che si
vedono riprodotti nei cataloghi delle agenzie turistiche, nei programmi
televisivi di viaggi, nelle serie di immagini per lo sfondo dello schermo di
computer, tablet e telefonini, e sul profilo social di amici più
fortunati. E non meraviglia nemmeno che alla domanda sul perché non lo faccia, la
risposta verta invariabilmente sulla mancanza di risorse finanziarie per una
tale scelta.
Nonostante da alcuni decenni nel nostro Paese non sia
più di moda come in passato il sogno di evasione nei mari del sud, il fascino
della natura delle terre di eterna primavera continua ad essere associato a una
vita diversa e felice. Alcuni guardano l’Isola dei Famosi alla
televisione solo per immergersi nella realtà tropicale.
Gli operatori turistici, soprattutto in America, sanno
bene che molti di coloro che approdano a quei lidi non si accontentano di una semplice
visita, ma sono in cerca di esperienze di vita diverse da quelle del loro
quotidiano. In Florida, a Key West, ad esempio, i turisti possono solcare il
mare turchese veleggiando fra isolotti di palme e orizzonte caraibico in
catamarani di lusso, sui quali biondi culturisti e modelle perfette in costume da
bagno servono champagne francese ghiacciato, incluso nel modico costo del
biglietto per un giro di qualche ora. Vendono per pochi dollari l’esperienza di
una mezza giornata da miliardari, proponendo la realtà nella forma dei sogni
del cittadino medio. Finito il giro, se ci si guarda intorno, ci si accorge
della differenza con coloro che quella vita la fanno davvero: hanno capi d’abbigliamento
one-of-a-kind e escono in fretta dagli chalet, con amici del mondo dello
spettacolo, per tornare sul panfilo o sullo yacht dove si intrecciano amori e
affari da copertine patinate; i più giovani, come in Brasile a Copa Cabana,
Dois Irmãos, Ipanema, Leblon, o sulle coste tropicali della California e dell’Australia,
scelgono secondo le condizioni del mare tra il surf e la moto d’acqua.
Ma, niente paura, in Florida, patria del Disney World, anche le moto d’acqua si
noleggiano e, anche in questo caso, c’è chi offre il riflesso di un sogno in un
frammento temporale di vita: chi avesse poca dimestichezza con la guida di
questo mezzo da sport acquatico può noleggiare anche un’incantevole conduttrice
che, capelli al vento, vi fa quasi volare sulla superfice turchina del mare
sotto il cobalto del cielo.
Due caratteristiche accomunano tutte queste esperienze
nella nostra mente: la breve durata e la consapevolezza della loro natura
artificiale. Ma, soprattutto, si comprende che tutti quegli elementi possono
essere uno sfondo e un complemento ideale, ma non fanno da sé una vita piena, avventurosa,
entusiasmante e godibile in ogni istante. In altri termini, mi si conceda la
metafora: disporre di quel set cinematografico non vuol dire fare un buon film;
occorrono innanzitutto una buona trama e un buon attore protagonista.
Risorse della forza creativa. Uno
scenario naturale da sogno non può da solo soddisfare le esigenze di chi cerchi
una condizione di esistenza quale quella che abbiamo definito nelle righe
iniziali: Robinson Crusoe[4], prototipo
dei naufraghi moderni, lo attesta e Chuck Noland, il Tom Hanks di Cast Away,
lo conferma nella maniera più drammatica[5]. Da soli,
anche nel luogo più bello del pianeta, non si va oltre la sopravvivenza, la
vita richiede interazione, rapporto, scambio, condivisione, confronto, trame di
senso entro cui significarsi, individui e gruppi umani con i quali
identificarsi o dai quali distinguersi. Si ha bisogno di un mondo. Anche
solo nell’accezione ferreamente logica e assolutamente scarna espressa dalla
definizione di Wittgenstein: l’insieme dei fatti. Il mondo, inteso come
tutto ciò che avviene nel contesto umano grazie ad attori e spettatori, che
spesso fra loro invertono i ruoli, è il presupposto implicito per l’esistenza
del soggetto. È la trama di senso in divenire entro cui prendiamo posto alla
nascita, e nella quale possiamo essere individuati grazie a un nome: il nostro.
Ma solo quando a questo nome che ci individua corrisponderanno atti
volontari e deliberati, riconoscibili in base ai codici di civiltà e cultura in
uso in quel consesso, si otterrà il riconoscimento di soggetto.
Non è necessaria alcuna competenza psicologica o
neuroscientifica, basta un po’ di esperienza di vita e di conoscenza di sé
stessi per sapere che una vita piena richiede una mente attiva,
quale prerequisito indispensabile. Ossia uno stato mentale vicino al concetto
di high spirit della cultura popolare americana, ossia di intensità cognitiva
e affettiva, al quale possiamo attribuire il valore di “condizione necessaria
ma non sufficiente”, come dico per usare la forza suggestiva di una
terminologia matematica.
Se è evidente che il collocarsi in uno scenario da
sogno, come chi decida di trasformare la vita in una costante vacanza, non basta,
e che essere forniti di facoltà e qualità psichiche adatte a vivere l’intensità
non è sufficiente a sviluppare le desiderate trame entusiasmanti nello spazio e
nel tempo di un mondo, allora si deduce la necessità di divenire costruttori
delle condizioni desiderate, facendo appello alle risorse della forza
creativa.
Historia magistra vitae. Se la
storia è senza dubbio maestra di vita, non è detto che lo sia anche la storia
della fiction, ma se si tratta di risalire a quell’intreccio originario
fra trame di esperienza, simbolismo religioso e tematiche filosofiche, che ha
fondato nell’antica Grecia il sapere narrativo della cultura occidentale, è
molto probabile che si possa trarre qualche insegnamento.
Una vita statica e monotona, con una routine
dalla quale non si riesce a venir fuori, per i Greci antichi configura un’aporia.
Per superare un tale stato sono necessari degli espedienti[6], detti poroi,
che non mancano a chi possiede quella celebrata forma di intelligenza, ricca di
mille astuzie, che è la metis. Ulisse, dotato di tutte le risorse della
forza creativa, è il prototipo dell’uomo provvisto di metis: una
capacità cognitiva che è molteplice (pantoìe), varia (poikìle),
ondeggiante (aiole) e generatrice di stratagemmi e inganni (doloi),
da mettere al servizio di bisogni, necessità, progetti e desideri di chi la impiega.
L’Odissea è la madre letteraria di tutte le avventure,
che ha per scenario la bellezza naturale del Mediterraneo e per protagonista un
uomo dalla mente straordinariamente attiva, mai solo, anzi legato ai compagni
con i quali è perfettamente inserito in una rete simbolica di legami che gli
conferisce senso e capacità di attualizzare anche quella parte del mondo che è
lontana. Omero ci insegna che non basta però essere dotato di buoni
prerequisiti, perché se si vuole “creare vita” si deve essere efficaci nella pratica:
si deve essere in grado di affrontare ogni imprevisto. Questo è facilmente
compreso da noi post-moderni che abbiamo seguito le riflessioni di chi, come
Schopenhauer, teorizza che la felicità stessa consista nel superare ostacoli.
In tutta la tradizione greca si afferma che, per avere
potere sugli eventi ed esercitare la propria forza anche contro condizioni e
circostanze avverse, l’abilità, la metis, vale più dell’intransigenza (atropia).
Tale astuta capacità è descritta come politropia ed esemplificata dall’uomo
che rivela un volto diverso a ciascuno, e una virtù differente e specifica per ogni
problema: l’epistrophos anthropon. E tale è Ulisse, la cui polivalenza
porta Eustazio a definirlo un polpo[7]. La sua
molteplicità non è semplice variabilità, in altri termini non lo si deve
confondere con l’uomo che i lirici chiamano ephémeros. Ulisse non è un
fantasioso che crede di essere creativo, ma un uomo realmente abile nel creare,
la sua multiformità è padroneggiata come scelta del registro di sé da
impiegare, della risorsa a lungo esercitata da usare appropriatamente. L’ephémeros
è uno che appare molteplice perché mostra volti e stili diversi, ma la sua variabilità
è conseguenza di instabilità interiore: è in realtà incostante e mutevole per
effetto degli eventi, che subisce passivamente, mostrando la sua inconsistenza.
Oggi diremmo che per essere epistrophos anthropon
è necessaria maturità affettiva oltre che costanza nell’esercizio dell’intelligenza
in vista di uno scopo. Un ephémeros dei nostri giorni potrebbe andare in
crisi per i piccoli contrattempi di un viaggio organizzato. Ulisse mostra ogni
sua abilità a partire dalla volontà di dominio di sé, esemplificata dall’episodio
delle sirene: può dominare gli eventi perché vince sé stesso.
Dunque, impariamo dalla saggezza antica che la qualità
della vita non è la conseguenza passiva della scelta di un buon ambiente, ma
dipende dalle qualità della persona e dal loro saggio ed efficace impiego.
Tuttavia, in contrasto con la traccia iniziale di una
vita piena, avventurosa, entusiasmante, sorprendente, ricca di luce e di colori,
la vita di Odisseo è un continuo alternarsi di vicende negative e positive, con
una prevalenza di fasi caratterizzate da fatica, sofferenza, costante
esposizione al pericolo, all’ignoto e a ogni altra sorta di difficoltà
esistenziali. È un tratto, questo, che Omero ha concepito sia per avvincere il
lettore sia per conservare un legame con la realtà: nemmeno la vita degli dei
dell’Olimpo era idealizzata come un continuum di fatti ed eventi positivi.
In conclusione, si può dire che forse è proprio l’aspirazione
a questo genere di “bella vita” ad essere sbagliata in sé, non solo e non tanto
perché la gioia e il piacere si esprimono in un cambiamento dello stato
psichico che è difficile da rinnovare rimanendo sempre con un tono dell’umore
elevato, ma soprattutto perché soli non si vive e in ogni condivisione è insita
una possibilità di sofferenza. Forse, se continuiamo a idealizzare una vita edenica,
vuol dire che dobbiamo ancora imparare a sognare e desiderare in una forma più
realistica, e forse ci possono aiutare le riflessioni che abbiamo sviluppato sul
potere morale che ha l’estetica del gesto oblativo, come metonimia di un modo
di concepire l’esistenza non per sprecarsi in una “bella vita” ma per fare del
proprio tempo in questo mondo una vita davvero bella.
L’autrice
della nota ringrazia la dottoressa Isabella Floriani per la
correzione della bozza e invita alla
lettura di scritti di
argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare
il motore interno nella pagina “CERCA”).
Monica Lanfredini
BM&L-30 novembre 2019
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Society of Neuroscience, è registrata presso l’Agenzia delle Entrate di
Firenze, Ufficio Firenze 1, in data 16 gennaio 2003 con codice fiscale 94098840484,
come organizzazione scientifica e culturale non-profit.
[1] Philo Vance è un personaggio
creato da Willard Huntington Wright, alias S.S. Van Dine, quale protagonista
di dodici romanzi pubblicati dal 1926 al 1939. In alcune avventure, Wright
attribuisce a Vance le proprie competenze di critico d’arte. Nel 1974 la RAI realizzò
una miniserie televisiva intitolata Philo Vance. Lavori teatrali,
radiofonici, televisivi e cinematografici ispirati al personaggio sono stati realizzati
in tutto il mondo.
[2] James Bond è stato creato dallo
scrittore britannico Ian Fleming nel 1953 ma, dopo la scomparsa di Fleming nel
1964, otto diversi autori hanno scritto storie con Bond per protagonista. Sean
Connery è stato il primo attore ad interpretare James Bond nel 1962, con un
successo irripetibile, poi, dopo l’australiano Lazenby, è stata la volta di
Roger Moore, cui sono seguiti Dalton, Brosnan e, dal 2006 a oggi, Daniel Craig.
[3] È invalso l’uso del termine “digitale”
che deriva da un’erronea traduzione a orecchio di digital inglese: digit
vuol dire cifra e digital vuol dire cifrato, codificato.
Chiamarle col giusto termine italiano può aiutarci a ricordare che viviamo nell’epoca
della riproduzione codificata o matematica dell’immagine.
[4] Robinson Crusoe, protagonista
del romanzo pubblicato da Daniel Defoe nel 1719 e considerato il capostipite dei
romanzi d’avventura, è un naufrago che giunge su un’isola tropicale al largo
del Venezuela, dove trascorre dodici dei ventotto anni di permanenza in
completa solitudine. La narrazione è basata sulla storia vera del naufrago
Selkirk, un marinaio britannico.
[5] Cast Away (Naufrago) è un
film del 2000 che narra di un giovane ingegnere (Chuck Noland) superstite di un
incidente aereo e naufrago su un’isola deserta, che con le dita insanguinate
traccia gli elementi essenziali di un viso su un pallone dai resti dell’aereo. Gli
dà nome Wilson, dalla marca del pallone, e ne fa un interlocutore che arriverà
ad amare come una persona vera. Anche la trama di questo film è ripresa da un
fatto di cronaca.
[6] Poros (Πορος),
l’Espediente, come divinità è la personificazione della capacità di
trovare soluzioni, vie di uscita, modi e strategie per superare condizioni di
stallo, aggirare ostacoli insormontabili, attraversare le impervie “selve
oscure” di certe epoche della vita.
[7] Cfr. M. Detienne & J. P.
Vernant, Le astuzie dell’intelligenza nell’antica Grecia, p. 29, Editori
Laterza, Roma-Bari 1999.